La Freelance Francesca Borri in Siria

La Freelance Francesca Borri in Siria

Qualche settimana fa, ha fatto molto scalpore l’articolo della giornalista Francesca Borri, pubblicato dal  Columbia Journalism Review  nella quale la  giovane reporter raccontava la sua vita da freelance in Siria e di come  questa ragazza  mettesse a repentaglio la sua vita quotidianamente per scrivere  pezzi riguardanti la guerra civile.

 [ Ecco il pezzo in Italiano pubblicato su Il  Posthttp://www.ilpost.it/2013/07/12/francesca-borri-siria/ ]

Il tutto alla irrisoria cifra di 70 euro a pezzo. Il massimo che la  redazione italiana del Fatto Quotidiano fosse disposta a pagare per un  suo pezzo.

L’articolo denunciava la precarietà della vita da freelance e di come spesso in Italia molti direttori di testate non guardassero in faccia a niente e nessuno, sottopagando i freelance e svalutando un lavoro molto diverso da quello svolto dai giornalisti in redazione.

Il pezzo della Borri, va detto, è molto romanzato e forse, nonostante sveli  retroscena scomodi e allo stesso tempo interessanti della vita da freelance in zone di guerra, sia finito per risultare solo una pura e semplice lagna/lamentela contro il mondo del giornalismo in Italia.

Per intenderci: questo mondo in Italia fa letteralmente schifo e non c’è da meravigliarsi che stia andando a puttane ma, al di là delle reazioni isteriche e spocchiose di molti giornalisti, ad esempio quella di Guia Soncini [Link: http://bit.ly/1bkARY9 ]

(reazione decisamente ridicola e alquanto arrogante per una che non ha mai alzato il culo dalla sedia di casa),  sorge spontaneo domandarsi:

Ma fare il Freelance di guerra, soprattutto in Italia, è una fregatura oppure è una scelta di vita, un’ avventura che ripaga i rischi con la totale libertà di scrivere riguardo ciò che più ci possa interessare?

Essere freelance consiste nell’essere semplicemente un ripiego con il quale tappare buchi nei giornali, essere delle persone che meritano solo quanto portano lo scoop(e a volte manco in questi casi) oppure scegliere di essere freelance è un mestiere duro, non per tutti, ma che può incarnare perfettamente il concetto di giornalismo vero?

Per rispondere  a questa domanda, voglio riportare la risposta data da Federico Mastrogiovanni sul suo blog Radical Shock.

E’ un po’ rude, ma credo sia la migliore replica all’articolo della Borri e alle successive reazioni piovute da tutta Italia per difendere o calunniare la giovane freelance:

 

“Sono giorni che mi fa su e giù nello stomaco questa storia di Francesca Borri e del suo articolo di denuncia, esaltato o vilipeso in giro per il mondo.

Mi ha colpito il fatto che me lo ha sottoposto la mia editor brasiliana, incuriosita dalla mediocrità dei suoi colleghi italiani che con tanta facilità ti propongono compensi così umilianti.

Mi molesta questa polemica soprattutto per quei tanti giornalisti snob che non riescono a evitare commenti pelosi su questa situazione così squallida.

C’è quello che dalla sua redazione milanese o romana, con le sue Hogan ai piedi, la sua camicia colle maniche arrotolate e la borsa di cuoio, fa le pulci alla credibilità della Borri, domandandosi che guerra ci fosse in Bosnia nel 2003. Pure se ci fosse stata la sagra della salsiccia nel dumilaettré in Bosnia, 50 euro so’ sempre pochi.

Oh, poi ce sta quello che invece è giornalista “navigato”. Che ha consumato il culo su sedie con le rotelle, che s’è fatto anni e anni di redazione. Che è GIORNALISTA, manco giornalista, con cognome più o meno noto. Quello stile “paternalista”, che ti dice “vabbè, che te credevi? questo è il giornalismo, bellezza” (frase che piace da morì ai giornalisti. inspiegabilmente, perché è davvero una frase del cazzo. no. sul serio. lo è.  abbozzate. almeno su questo.)

La variante è quella sul polemico-condiscendente, cerchiobbottista, che non capisci dove cazzo vuole arrivare, che tesi vuole sostenere (e qui la citazione è letterale e co cognomi che pesano, occhio): “Per quanto poco li paghi, si troveranno sempre giornalisti disposti a rischiare la pelle per il pezzo. E gli editori lo sanno.” Quelli che “è sempre stato così e sempre lo sarà”. Bene. E quindi? Qua si fa della tautologia spacciata da commento. Del resto con la tautologia ce se so costruiti imperi. Grazie davvero della profondità. Mo ho capito tutto. Scusa te quanto guadagni? Così. Pe sapè.

Poi ci stanno i colleghi frílènz che giustificano le condizioni umilianti in una sorta di gara masochistica a chi si dà più mazzate sui coglioni per far vedere quante cicatrici c’ha addosso (e qua ce casca un po’ pure la Borri, che non si capisce manco lei che cazzo vole. o no Francè? che cazzo vòi? dimmelo. dai. me lo tengo pe me). Questi sono quelli che ti dicono che la passione, che l’amore per la professione, che se non c’hai le palle sto mestiere non lo fai, che “certo sono tutti così gli editori, ci devi avere la scorza dura”, che so disposti a tutto, alla fin fine, per la loro passione.

Oh, tutte cose vere eh, si badi bene che in questo caso sono cose vere, non ce la fai se non hai passione e tutto quanto. Ma il discorso non può finire lì. Quello che faccio fatica a leggere, oltre le lamentele blande e scomposte, è chi rivendica una situazione di sfruttamento sistematico.

Grossi giornali chiudono i battenti a fronte di una “crisi dell’editoria” che pare non avere fine. A me me scappa sempre un “grazie ar cazzo”. Fanno così schifo la maggior parte dei giornali che mi stupirebbe il contrario.
Se la maggior parte dei contenuti la compila una massa informe di impiegati pagati da fame che fanno un lavoro mediocre in origine credendosi pure stocazzo solo perché sono riusciti a piazzarsi in una merdosa redazione, cominciamo proprio maluccio.
Forse questo lavoro è fatto di altro. Forse si tratta di raccontare storie, una delle poche attività umane, insieme forse al sesso, all’alimentazione, alla cura dei figli, che non passano mai di moda. E che ci saranno sempre.
Ma le storie devono essere ben raccontate, ci deve essere la vita dentro, e lo devo sentire il mondo, deve essere verosimile oltre che vero. Allora ogni burocrate del giornalismo dovrebbe trasformarsi in Kafka per raccontare quel mondo, ma non dovrebbe cercare di fingersi Hemingway stando piantato davanti a un monitor.

Sugli editori squali, beh, fanno il loro mestiere, come sostengono i cerchiobottai, ma non c’è nulla di male nel dire che è un mestiere da stronzi.

Dire a un kapò che vabbè dai si sa che un kapò è un kapò, che je devi dì? Per esempio je poi dì che è n’infame. Certo, è tautologico, sì ma fa bene ricordare all’infame che è un infame. Che fa schifo. Poi magari non lo cambi, là rimane. Ma almeno per qualche secondo ti senti un po’ meglio. E magari quel kapò inizia a chiedersi se anche la sua vita e il suo mestiere potrebbero essere diversi. Magari belli.

Il lavoro di giornalista, in special modo quello di freelance (termine inglese per dire precario, o “colui che se la piglia in culo”) è fatto di tante cose: di passione, di incoscienza, di narcisismo, di coraggio, di ingenuità, di bisogno di sfidarsi, di vincere le proprie paure, ma è un lavoro e come tale va pagato. Non è che se una cosa mi piace farla allora non si deve pagare. Vaglielo a dire a un calciatore, il cui mestiere è giocare a pallone, come faceva da regazzino, mortacci sua (ao detto in amicizia eh), e lo coprono d’oro. Dice, vabbè te piace, nun te pago. Cor cazzo!

Ecco, questo è l’atteggiamento che dovremmo avere. Poi però siamo noi stessi, per primi, ad accettare condizioni umilianti, a farci prendere per il culo, a cedere lucidità alla voglia di avere i nostri 3 secondi di notorietà. E questo ci rende dei mediocri. Ci rende umani. Ma ciò non toglie che siamo sfruttati. E che dobbiamo usare tutte le occasioni possibili per alzare la testa. Siamo quel tipo di sfruttati, di classe subalterna, che ha acquisito la mentalità della classe dominante. Siamo gli schiavi perfetti, che pensano come il padrone.

Beh, forse in uno sprazzo di lucidità potremmo cominciare a dire che siamo stanchi e fare qualcosa per cambiare. Ad esempio fare outing. Dire CHI sono gli editori che non pagano, rendere pubblico il segreto di Pulcinella. Comincio? bene.
Io ho ricevuto offerte di collaborazioni dal colpo di stato in Honduras del 2009 da Radio Rai che mi chiedeva di lavorare per poche centinaia di euro. L’ho fatto. Poi ho scoperto che il signor Radio Rai intendeva dire GRATIS.

Lo stesso dicasi per l’ormai defunto settimanale Carta. Compagni che sbagliano.

Il Riformista (defunto), così come il Fatto Quotidiano (tra coloro che pagano meglio) dallo scenario del terremoto ad Haiti pagavano 50 euro al pezzo. Dice, ma come cazzo te mantenevi pagando 100 euro al giorno un fixer? (domanda di qualche stronzo commentatore della Borri che evidentemente non ha mai alzato il famoso culo dalla famosa sedia) Eh, davo via il culo. Oppure parlavo le lingue, sapevo scrivere in 4 lingue aumentando considerevolmente il mio mercato. Per esempio una radio straniera pagava 120 euro al minuto di collegamento. Per esempio un giornale straniero pagava 200 dollari al pezzo. Per esempio qualche rivista straniera comprava un reportage a 1000 dollari. Allora cominci a capire che è vero che il settore è in crisi in tutto il mondo, ma è vero anche che in Italia fa più cacare che in quasi qualsiasi altro paese. Che come al solito ci distinguiamo per il peggio.

Spero che il mio sfogo da freelance sia seguito da molti altri, ma ne dubito. Concludo con una frase del mio vecchio capo/maestro (che me pagava peggio de tutti e infatti l’ho mollato): fare il giornalista può essere duro, pericoloso, faticoso, frustrante. Ma è sempre meglio che lavorà.

 

Il link del articolo: http://radicalshock.wordpress.com/2013/07/14/vita-comico-grottesca-da-giornalista-freelance/

 

MORALE DELLA STORIA: MEGLIO NON LAMENTARSI, MA NEANCHE CREDERSI CAZZO SOLO PERCHE’ SI E’ PAGATI PER SCRIVERE, PREVALENTEMENTE, STRONZATE.

 

Alla prossima…