Un buon consiglio...

Un buon consiglio…

 – Domenica 2 Febbraio: “Ah, finalmente Febbraio, oramai il peggio deve essere passato e sicuramente il clima inizierà a migliorare…

– Lunedì 3 Febbraio: tormenta di neve su New York City. E che c…

Inizia così la mia avventura alla New York University, tra le 8:00 di mattina di un lunedì lavorativo, la metro intasata da morire, un ombrello mezzo rotto prestatomi dal mio coinquilino Ben (probabilmente l’attrezzo deve avere più anni di lui) e una copiosa nevicata che imbianca le strade e manda nel caos tutta Manhattan.

Ma la cosa che più mi ha colpito è stata la multietnicità della mia nuova classe:

Ci sono tre Cinesi, un Coreano, due Giapponesi, una Russa, un Israeliano e una Africana. Ah dimenticavamo, c’è pure un Italiano.

No, non è l’inizio di una barzelletta, è semplicemente la mia classe alla New York University: c’è n’è per tutti i gusti.

Si va dal figlio di un ricco imprenditore cinese fino al Nerd coreano che ogni volta ci incontriamo mi ricorda quanto sia bella la “Cinquecendo”, passando per una ballerina di Shangai che aspira a entrare alla New York Ballet Accademy, per arrivare a due giapponesi (strasimpaticissimi tra l’altro) che sono stati spediti dalla propria azienda per un corso full immersion di English Business.

Il mio Id alla New York University

Il mio Id alla New York University

Ma la persona più improbabile e incredibile che avrei mai potuto incontrare si chiama Raihana, studia ingegneria informatica e ha una piccola particolarità: viene dal Ciad.

Alzino la mano quante persone sanno dove si trova il Ciad? Beh, se lo sapete, i miei complimenti più sinceri. Io non lo sapevo e ci faccio pure il giornalista. Che vergogna!

Va beh, per chi non lo sapesse il Ciad è una piccola nazione sperduta dell’Africa Centrale.

Il punto è che qui negli States non c’è niente di più normale della multiculturalità, anzi ne è proprio l’essenza stessa e non esiste nessuna città al mondo che possa essere globale tanto quanto New York.

Al di là del mio primo impatto con l’università, la cultura americana inizia a prendermi piuttosto bene, tra gli imbustatori nei supermercati che ti preparano la spesa bella e pronta dentro dei comodi sacchetti doppio strato(evitandomi figuracce e nascondendo la mia totale incapacità di aprire con le dita quelle dannate buste di plastica) e i panini del Mc Donald dalle dimensioni minute, che ti obbligano a mangiarne circa una cinquina prima di essere sazi.

Finalmente un piatto di pasta decente a Eataly

Finalmente un piatto di pasta decente a Eataly

Ho iniziato persino a trovare interessante la televisione via cavo, il che è tutto un dire.

Eppure sento un vuoto dentro di me: mi manca la pasta. Ammetto questa amara debolezza..

Mica perché, qui campano di pizza e pasta quasi più che in Italia, ma fa veramente schifo e azzardando una Carbonara in un ristorante dal nome improbabile “Vapiano”, diciamo che ne ho pagato profondamente le conseguenze. E anche velocemente.

Fino a che, mi giunge una soffiata: “Prova vicino il Flat Iron, sulla 21° street, lì c’è un posto che si chiama Eataly.”

Beh, il posto non è male, fanno la pasta a mano e le pietanze per lo meno sono al dente, ma la cosa veramente strana è stata l’essermi ritrovato a fare pranzo con i due giapponesi e la ciadiana.

Avete presente le comiche? Uguale.

I miei nuovi amici international

I miei nuovi amici international

Dal giapponese che ordina delle pappardelle fino a io che, per spiegare cosa fossero le orecchiette, mi sono cimentato in improbabili traduzioni inglesi tipo “Little ears”. Eppure ritrovarsi a mangiare Bucatini all’amatriciana, in America, circondato da stranieri, è stato veramente qualcosa di insolito, mai successo prima, con l’apice toccato quando ho mostrato a tutti, una volta divorata la pasta, cosa fare con il pane: la sacrosanta scarpetta.

Forse volgare, ma very Italian style, con la soddisfazione finale di aver visto i miei nuovi compagni internazionali fare allo stesso modo, un po’ perplessi della cosa, ma alla fine apprezzandola.

Come si dice: sarà anche la globalizzazione, ma le cose buone sono uguali per tutti e dappertutto.

Concludo il pezzo, svelandovi una particolarità, appresa oggi, tutta americana: qui non esiste il piano terra.

I palazzi partono dal primo piano, quindi il 5th floor in realtà corrisponde al 4° piano. Ben mi ha spiegato il motivo:

In America non esiste il Ground zero, che senso avrebbe? Siamo ottimisti qui e quando si incomincia, tanto vale iniziare da uno, almeno partiamo già avvantaggiati.”

L’essere propositivi, sempre e comunque: in fondo bastano questi dettagli per capire come l’abbiano sempre pensata da queste parti…

 

[ Per seguire le mie avventure nella Grande Mela, potete anche visitare la mia rubrica su Informazione.tv: http://www.informazione.tv/it/un-fermano-a-new-york/art/48831-globalizzazione-scarpette-e-primi-piani-guarda-le-foto/ ]